ABSOLUTELY NOTHING – Storie e sparizioni nei deserti americani di Giorgio Vasta e Ramak Fazel

Storie e sparizioni nei deserti americani: un reportage atipico tra realtà e immaginazione

Ci sono dei libri che hanno su di me un effetto simile a quello di ritorno da un viaggio. Leggo ebbra delle parole che fluttuano davanti ai miei occhi che mi si imprimono sull’anima ed il cuore. Contrariamente al solito, mi prendo tempo, rileggo, assorbo, fisso nella mente frasi ed espressioni fino a che, terminato il libro, una volta letta l’ultima parola, ne resto talmente colpita che sento già una malinconia quasi struggente.

Ci sono libri che ‘sento’, che mi rimangono addosso, di cui mi innamoro immensamente dopo poche righe ♥️

Ogni parola, ogni frase, ogni pagina, ogni emozione condivisa o suscitata, mi riportano là, nell’amato West americano *_*

 

E’ quello che mi è successo con Absolutely Nothing – Storie di sparizioni nei deserti americani, libro firmato dallo scrittore Giorgio Vasta e dal fotografo statunitense Ramak Fazel *_*

 

Una spedizione attraverso l’America

Il libro nasce come diario/reportage di viaggio, ma diventa un’opera letteraria di viaggio inconsueta e totalizzante: la voce di uno scrittore si accompagna a quella di un fotografo in un resoconto di una spedizione tra il fisico e l’immaginario, il racconto di come le storie e gli spazi si riflettono in chi li attraversa.

Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani è il racconto dell’avventura di Giorgio Vasta, Ramak Fazel e della direttrice editoriale Giovanna Silva, che si fanno personaggi e ci accompagnano lungo un percorso che prende il via dalla scintillante Los Angeles attraverso California, Arizona, Nevada, New Mexico, Lousiana e Texas spingendosi fino al confine col Messico.

In mezzo c’è il vero protagonista della narrazione: il deserto, il nulla, il tutto ♥️

 

Vasta osserva il mondo e le persone, ascolta, annota, si perde negli spazi e nei non-luoghi: «A ogni sguardo che muovo fuori e dentro queste vecchie abitazioni, il mio sguardo sfida il linguaggio. Lo interroga, vuole sapere sa ha da mettergli qualcosa di buono per nominare, per fare frasi, vuole misurarne limiti e risorse».

Silva, metodica, organizzata, iPad alla mano, ricerca dettagli utili in rete anche nei luoghi più remoti, guida del gruppo e ‘ispiratrice interiore’ dello scrittore. Più complessa la personalità di Ramak, irriverente, tra il burlesco e la serietà, è l’elemento contraddittorio della spedizione fatto di intuizioni, spunti e deviazioni dal seminato.

 

Il tempo, lo spazio, il nulla…

Con il suo stile sorprendentemente denso, a tratti nitido, a tratti surreale, lo scrittore sceglie di procedere per visioni, affinità, suggestioni, non necessariamente in ordine cronologico e geografico, ma in un apparentemente ordine, sparso contornate da descrizioni e osservazioni estemporanee che si amalgamano e diventano narrazione.

Il libro si divide in capitoli con salti di tempo, passi indietro, inversioni, illogicità e a un certo punto la narrazione prosegue persino a ritroso. Le impressioni successive al viaggio sono un metabolizzare lento che si imprime nella scrittura e si fonde con l’esperienza di vita.

 

«[…] se anche il viaggio, com’è logico, ha previsto un prima e un dopo,

il suo racconto funziona in un altro modo:

il tempo si rompe, la linearità si perde, il ricordo si mescola all’oblio,

la ricostruzione all’invenzione, il prima e il dopo si fanno relativi […]».

 

A tracciare una continuità tra le varie tappe e a dare significato all’intero progetto è l’esplorazione di luoghi abbandonati, impianti dismessi, case disabitate, immensi deserti, per poter cogliere l’assenza, la frontiera e il gap tra immaginazione e realtà.

 

Ogni sosta è l’opportunità per confrontarsi con episodi e personaggi della storia statunitense, con miti e fondamenti della sua cultura (dalla conquista del West e in seguito dello spazio alla fantascienza, dagli eccessi del consumismo all’esaltazione mistica), con l’autorappresentazione di sé che questa nazione offre, «[…] perché ovunque è successo qualcosa, in ogni luogo minimo e negletto qualcuno è nato oppure è morto o ci è passato o c’è stato girato un film o un video tutto lo spazio è connotato e significativo, suscettibile di essere narrato»: negli Stati Uniti realtà e finzione non sono in opposizione, ma coesistono e si legittimano reciprocamente.

 

Alla scoperta dei deserti nordamericani e delle storie che nascondono

Il percorso di viaggio segue la rotta dei luoghi lasciati ai margini, quei paesini in passato floridi, vivi, dediti al commercio o al turismo, che ora giacciono abbandonati ad aspettare che il tempo li consumi.

Ecco allora il Salton Sea – un enorme lago californiano che progressivamente viene eroso dall’avanzare del deserto –, l’International Ufo Museum di Roswell – dove si prolunga la memoria di un antico incidente aereo che per alcuni fu il più importante avvistamento di UFO nella storia degli Stati Uniti –, il  Bradshaw Trail – una lunga strada che attraversa il deserto del Colorado – e Allamoore – un insediamento umano di 25 anime nel Texas, residuo di un antico centro industriale: sono queste le mete cercate o casualmente incrociate dai tre “autonauti”.

Vasta, nei deserti americani e sulle rive del Mississipi, cerca il vuoto, luoghi non luoghi, racconta storie di volti drammatici, reali, umani. Persone che stanno e restano, come Jeanne e Rudy accumulatori seriali di oggetti e tempo a Bombay Beach; Brother Simon, frate francescano che ha scelto il Texas e la vita contemplativa; Joe, l’inquietante gestore del Desert Market a Daggett; Bill del Bagdad Caffè che recita un copione per far rimanere a lungo, magari per sempre, i pochi avventurieri di passaggio; Billy Gibson, cantante degli ZZ Tops, in visita al museo degli alieni a Roswell; Jimmy e l’alligatore Stella che interpretano la loro messinscena ogni giorno per regalare ai turisti il selvaggio Mississippi dei romanzi.

Poi ci sono le nenie ipnotiche nel deserto del Mojave, il Trotter Park, l’ippodromo-astronave immerso nella polvere del deserto che giace in in mezzo al nulla sotto forma di architettura futuristica del tempo andato, ci sono le insegne al neon di Las Vegas, un tempo luminose e colme di promesse, si ritrovano una accanto all’altra come lapidi vintage.

E i relitti di aerei del Mojave Air and Space Port, grosse balene spiaggiate nel bel mezzo del deserto californiano, lontane dal mare, con il ventre vuoto della fusoliera in cui penetra la luce del deserto in tutte le sue sfumature e ombre.

 

“Dopo ore di viaggio diretti verso l’estremità occidentale del deserto del Mojave, attraverso un paesaggio di polvere biancastra in sospensione raggiungiamo il parcheggio del Mojave Air and Space Port […]. Scavalcato l’ennesimo dosso penetriamo in una valle larga e profonda, afflitta da un vento aspro che batte da ogni direzione: disseminati a perdita d’occhio centinaia di aerei, sporadicamente intatti ma nella maggior parte dei casi tagliati in due in tre o in quattro, le sezioni circolari esposte, le fusoliere ridotte a guscetti oblunghi svuotati o a baccelli senza la scorza, a lische, a scaglie, un’ala ancora intera e l’altra amputata, sostegni di legno infilati come zeppe tra sabbia e lamiera per non far crollare da una parte l’apparecchio sciancato, decine di reattori deposti al suolo, code che svettano triforcute dal terreno, e poi ancora frammenti di musi, stabilizzatori, ogive, carrelli, finché il livello di disintegrazione è tale che abbandonati sotto il sole non ci sono altro che granuscoli metallici senza nome”. La tecnica devitalizzata, gli aerei come giocattoloni passati di moda, buttati in una fossa comune, in un “cimitero di aerei”.

 

C’è l’immagine dell’America che coincide con la fantasia e c’è l’America abbandonata che Giorgio Vasta riesce a caratterizzare ogni volta in modo diverso: osserva le cose lontane, le mette a fuoco, le ingrandisce e le trasforma con uno sguardo approfondito in grado di cogliere passato, presente e futuro.

 

Storie e sparizioni, sparizioni e storie

Quando si incontra l’America c’è un apparato di luoghi comuni e finzioni da sfatare o, naturalmente, da confermare e vivere. Così Vasta sceglie di raccontare un itinerario che ambisce a esplorare un limbo tra mancanza e pienezza, dove il nulla ha un suo ‘tutto’, dove si respira l’evanescenza dei deserti americani e dei suoi fantasmi, dove a volte la realtà lascia posto ad un’illusione effimera.

In questo libro intenso parole e immagini dialogano all’unisono tra loro, ogni racconto nasce da una mix di realtà e finzione, ma il messaggio è sempre così vero e vivido che traspare un forte sentimento, un legame tra desiderio, solitudine e tenacia. E un fascino ipnotico che rimane appiccicato addosso che conosco bene, che mi riporta là, nei deserti americani *_*

Absolutely Nothing è un paradosso tra lo spazio immenso e silenzioso fatto da una folla di voci e storie che rimarranno imperscrutabili, ma che sicuramente continueranno a far nascere storie su storie. Se qualcosa sfugge, se la mancanza ha offuscato la visione dello spostarsi, è perché verso la fine diventa introspezione e dialogo interiore, un tipo tutto particolare di letteratura di viaggio che disegna le mappe imprimendole su chi ha intrapreso l’avventura e su chi ne legge le tracce ♥️

Storie e sparizioni, sparizioni e storie, cronache del nulla, dell’assolutamente nulla del titolo, ispirato a un cartello stradale di Barstow, in California, dove ai bordi di una strada diretta a Las Vegas che si inoltra nel deserto, c’è scritto “Absolutely nothing – Next 22 miles”. Un nulla che è anche la cultura del “tuttopieno” tipicamente americana.

 

“Qualche giorno fa ho visto la foto di un cartello, dico a un tratto. C’era scritto soltanto absolutely nothing, e poi next 22 miles.

Mi guarda, attende.

Mi ha colpito, dico.

Perché?

Perché eravamo nel deserto e non c’era niente di niente, quindi precisarlo, scrivere assolutamente nulla, e indicare la distanza, mi è sembrato paradossale.

No, dice lui, è giusto.

Ma non è vero, dico. In quelle ventidue miglia lo spazio continua a esserci.

Lo spazio sì, dice lui, ma la lingua no.

Che cosa vuoi dire?

Che la lingua a volte tace. Ammutolisce è più esatto. La lingua, riprende dopo avere messo a fuoco il suo ragionamento, resta senza parole.

[…]

Quel cartello è come una bandiera bianca, dico.

Non come, fa lui. È una bandiera bianca. Sventolata dalle parole.

Ed è anche, penso, la didascalia di questo viaggio: andare a vedere cosa succede negli spazi da cui le parole sono andate via”

 

 

I deserti nel cuore

Gli infiniti spazi dei deserti americani sono nell’immaginario (e nel cuore!) di tanti di noi, luoghi magnifici, di una desolazione pregna di significato: soffocati dal pieno delle nostre città o del nostro quotidiano, aneliamo a quel vuoto che rimandano a parole come libertà e respiro. Credo che il pregio di questo libro è avvicinare un po’ di più quel mito, renderlo un po’ più concreto, raccontarne le storie, la realtà, ma allo stesso tempo conservarne la poesia, la sua evanescenza, non intaccarne minimamente l’aura misteriosa di cui ogni sogno è fatto ♥️

Polvere alla polvere, come il deserto sa e insegna.

 

“Mi ritrovo a pensare che da un viaggio desidero soprattutto questo, percezione e inventario, vita sensoriale che diventa linguaggio, censimento di materiali, un’ininterrotta descrizione di cose senza mai una consapevolezza precisa, senza la minaccia di un significato, senza neppure l’ombra di una metafora: un viaggio di soli fenomeni e stupore”

 

 

 

 

 

Il libro

Absolutely Nothing – Storie e sparizioni nei deserti americani

Humboldt-Quodlibet 2016 – pp. 296

Giorgio Vasta, Ramak Fazel

 

Gli autori

Giorgio Vasta

Editor e consulente editoriale, insegna scrittura narrativa presso diversi istituti tra i quali la Scuola Holden e lo IED di Torino.

Dal 1999 è stato curatore e poi direttore della collana di saggistica Holden Maps di Rizzoli. Ha collaborato come editorialista alla trasmissione Atlantis (Radio2 Rai) e fa parte della redazione di Nazione indiana. È ideatore e coautore di NIC. Narrazioni In Corso. Laboratorio a fumetti sul raccontare storie (Holden Maps/Rizzoli, 2005).

Ha curato l’antologia di racconti Deandreide. Storie e personaggi di Fabrizio De André in quattordici racconti di scrittori italiani (Bur 2006) e nel 2007, con Edoardo Novelli, il libro fotografico di Alberto Negrin Niente resterà pulito. Il racconto della nostra storia in quarant’anni di scritte e manifesti politici (Bur). Un suo intervento è stato pubblicato nel volume Best off 2006, un altro nell’antologia I persecutori (Transeuropa 2007) e uno in Voi siete qui (minimum fax 2007). Il suo primo romanzo è Il tempo materiale, edito da minimum fax nel 2008 e candidato al Premio Strega 2009, e sempre per minimum fax ha curato l’antologia Anteprima Nazionale, edito nel 2009. Spaesamento, edito da Laterza, è del 2010.

 

Ramak Fazel

Nato ad Abadan, Iran, 1965. Dopo la laurea in Ingegneria Meccanica alla Purdue University, Indiana, si specializza in fotografia presso il CalArts – California Institute of the Arts. Dal 1994 vive tra New York, Los Angeles e Milano dove lavora con le principali riviste di design e architettura come Abitare e Domus. Il suo lavoro è stato esposto, tra gli altri, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, al Canadian Center of Architecture, Montréal, alla Casa degli Atellani, Milano, al Fort Wayne Museum of Art, Indiana, allo Storefront for Art and Architecture, New York, alla 14. Mostra Internazionale di Architettura Biennale di Venezia e alla Chicago Architecture Biennale. Fazel è visiting professor presso il San Francisco Art Institute.

 

 

NB Alcune foto dell’articolo sono di Ramak Fazel prese dal web, altre sono scatti fatti alle pagine del libro. L’ultima l’ho scattata io, in uno dei magnifici deserti dell’Arizona *_*

 

 

 

 

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